lunedì 3 settembre 2007

Primavera dopo l'Estate. Capitolo 1: Road to Oz. Il treno ha fischiato...





“Che cos’è quella sensazione quando ci si allontana dalle persone e loro restano indietro sulla pianura finchè le si vede appena come macchioline che si disperdono?... E’ il mondo troppo vasto che ci sovrasta, ed è l’addio. Ma noi puntiamo avanti verso la prossima pazzesca avventura sotto i cieli”
Jack Kerouac

Faceva molto caldo sulla nave, affollata di bambini e turisti della domenica e vecchi soli con la pancia di birra. Da lì a poco però sarebbe piovuto. Poi, di nuovo sole. Niente di tutto questo poteva stupirmi, nella mia prima tappa vera verso l’Australia, la mitica Oz. Nemmeno il nome della nave, che potete leggere nella foto qui sopra, mi ha sorpreso più di tanto. Il destino s’era messo in moto di buon’ora, quel giorno, e in ogni cosa si vedeva che stava facendo il suo sporco lavoro.
E così alla fine ho lasciato il mio buon vecchio Bucodiculo per andare a dare un’occhiata al mondo. Ancora non riesco a crederci. Non mi sembra vero. Non mi sembrava vero neanche prima, come ho già scritto, proprio perché non puoi mmaginare di stare per attraversare un paio di oceani e di continenti quando il panorama che vedi dalla tua finestra è lo stesso di quando eri alto un metro e un cazzo. Anche se avevo il biglietto in mano –biglietto quanto mai sudato, lasciatevelo dire- era tutto impalpabile. Irreale. Capita sempre così, quando realizzi un sogno.
Credevo che avrei scritto di più, lì al Bucodiculo. Credevo che avrei pensato di più. Ricordato. Invece niente. Forse la mia mente era già in viaggio, o forse, come credo, sapevo nel profondo, lì nelle budella, che era ormai tempo di andare. Quando finisce il primo tempo di un film non puoi passare tutto il tempo a pensarci su, o non capirai niente di quello che succede dopo. No. A quel punto devi puntare dritto al secondo tempo, preparato e libero a goderti tutto quello che può capitare, che sia o meno in sintonia col già visto.
Io e il Bucodiculo siamo stati amici, poi ci siamo odiati di brutto, e alla fine abbiamo provato a portare avanti una convivenza più o meno civile. Abbiamo cercato di fare la pace senza mai riuscirci del tutto. Anche ieri, prima di andare definitivamente, mi sono affacciato al balcone, ho fissato un po’ la massa blu lì dietro tetti e case ammuffite, ed ero indeciso tra mandare un bacio e alzare il dito medio.
Alla fine ho optato per un sorriso.
Ho cercato di non guardarmi indietro, di non cadere nella trappola della nostalgia che colora il grigio e cancella la merda. Sono sempre stato uno in lotta coi propri ricordi. Da una parte sono d’accordo con chi dice che ci si lega ai ricordi non può andare lontano, dall’altra so che senza quelli perdi semplicemente la tua identità. Per quanto schifosi siano, sono stati loro a mettere su il tizio che vedi ogni giorno allo specchio.
I ricordi sono come quegli anziani saggi che non la smettono più di parlare: devi ascoltarli rispettosamente, ma non troppo.
Sulla nave Morgana non ero solo. Un amico mi ha voluto accompagnare fino a Villa San Giovanni, in Calabria, da dove avrei preso il treno per Roma –la prima e unica fermata nella strada verso Oz. Abituato a partire da solo, mi ha fatto effetto. Sono sempre stato un drammatico e gli addii, anche per pochi mesi, mi hanno sempre lasciato una malinconia da settembre piovoso ed estate finita. E stavolta non si trattava nemmeno di pochi mesi.
Lasciatevi dire che gli addii sono la parte più brutta di ogni viaggio. Banalità sacrosanta. Non importa quanto tu abbi desiderato quel viaggio, quanto sia vitale per te, e nemmeno se i rapporti che avevi con le persone che lasci non sono sempre stati idilliaci. No. Quando la nave molla gli ormeggi, quando il treno comincia a muoversi, quando l’aereo prende la rincorsa, tutto quello che vedi sono, come dice Jack, persone che si fanno sempre più piccole fino a scomparire. Anche questa è una trappola, come la nostalgia, e non puoi evitarla. Proprio per questo le stazioni sono tra i posti più tristi al mondo.
Tutto quello che dovete fare, a quel punto, è prendere un grande respiro e guardare sempre fisso avanti a voi. Non lasciatevi fermare dai saluti, dalle facce, da quello che è stato. Farà male, molto. Per rinascere infatti bisogna sempre morire un po’, prima. È atroce, e inevitabile. E in fondo è anche un bene che ci sia, questo dolore. Indica che l’organo è sano e pulsante, che c’è rimasta ancora della vita, nei ricordi e nelle speranze.
A meno che il viaggio che state per fare non è uno a cui siate state costretti da ragioni materiali o di vita e di morte, ci sarà sempre il momento in cui penserete –ma perché tutto questo?
La domanda è umana, ma dovrete allora avere il coraggio la forza l’incoscienza di darvi una risposta altrettanto umana: perché sì.
Troppo semplice? No, per niente. Perché dirselo vuol dire non farsi prendere. Non fatevi ingannare da questo dolore, dal fatto che il vostro corpo si faccia all’improvviso così pesante. Lui vuole restare lì, è ovvio. Lì c’è nato e cresciuto, lì ha le sue abitudini e i suoi punti di riferimento. Quello che c’è dentro il corpo però non ne ha, di punti di riferimento. Non ha nazionalità, non gli servono documenti, non assomiglia a nessuno. Quello che c’è dentro vuole vedere quello che c’è fuori, oltre quei palazzi e quelle strade che ormai conoscete a memoria.
Tenete a mente questo: la vita va avanti. Non nel senso dell’andare oltre le tragedie, ma proprio nel significato letterale della frase. La vita va avanti. La vita si muove in avanti. Il corpo può restare fermo quanto vuole, ma la forza che lo anima spinge e spingerà sempre in avanti. La vita si muove fisicamente in avanti, e nemmeno il corpo può fare troppo finta di niente, perché i capelli che cadono, le tette che scendono, tutto vi ricorda che anche se voi vi ostinate a restare fermi in cerca di una sicurezza che in realtà non arriva mai, la vostra vita si sta muovendo, come un cavallo imbizzarrito che ogni tanto va lasciato correre a perdifiato.
Non credo sia possibile restare fermi. C’è un’eternità intera, per farlo, una volta schiattati per bene. Nel frattempo credo che la vita debba seguire le rotte delle strade e dei binari, e perdersi in quelle scie bianche lasciate dagli aerei in cielo.
Detto tutto questo, non è lo stesso facile salutare, dirsi addio. Non va mai come nei film. Non ci sono frasi storiche da dire, sguardi che restano impressi, gesti marziali. Nella realtà c’è impaccio, imbarazzo, e molta molta tristezza che segna gli occhi e fa tremare la voce. Momenti in cui pensi che i marinai sono i veri santi sulla terra.
Avrei voluto dire molto di più, esprimere molto di più a tutti, ma la Morgana accende i motori e non c’è più tempo. Prendo le mie valigie e salgo sul treno, alla fine, chiedendomi se è stato lo stesso Dio a creare il mondo e le distanze.
Sollevo un’ultima volta la mano mentre fuori settembre è in ogni goccia di pioggia che finisce per rigare il finestrino. Mi metto comodo pensando solo di sfuggita alle prossime 6 ore di treno. In realtà sto pensando che il viaggio è cominciato e ancora mi aspetta l’addio più doloroso.
Alzo gli occhi e guardo le mie valigie. Adesso sono piene. Sono in movimento.
Era ora.
Marco

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