mercoledì 29 maggio 2013

Survivors (prima parte)


Quando sono uscito di là, non ricordavo nemmeno più che giorno ci ero entrato. Ricordavo però tutto il resto, in una maniera così limpida, totale e potente che sapevo che non l’avrei mai dimenticato. Mi dissi anche che ne avrei scritto, un giorno. Me lo dicevo ogni sera, quando si spegnevano le luci e si sentivano solo i campanelli delle infermiere e i carrelli sul pavimento del corridoio ed ogni tanto qualche lamento nel buio. Uscirò di qui e scriverò di tutto questo, mi dicevo. Poi i giorni passavano e non sapevo quando sarei uscito di lì, nè come, ma una cosa la sapevo: se fossi uscito, ne avrei scritto.
E così, eccomi.

Non so se sono ancora pronto a riprendere tutto. Mi sento come uno che sta risalendo ora in superficie dopo giorni e settimane sotto un’acqua torbida. Respiro con forza fino a che i polmoni non mi fanno male, e non ne ho mai abbastanza dell’aria. Mi sembra la cosa più bella che sia mai stata inventata. Mi sembra che sia tutto. Inspirare, espirare, non serve molto altro. Che la marea mi sbatta pure dove vuole. Mi basta respirare.

Ho delle immagini in testa. Quel pronto soccorso del primo giorno (chissà che giorno era?), un’attesa lunghissima insieme alla mia amica Federica, che per caso mi aveva accompagnato quella mattina –ore prima, un secolo prima- a fare una normale visita dal medico di famiglia, e questi mi aveva mandato da un oculista e poi quello aveva preso il telefono e mi aveva prenotato d’urgenza un posto all’ospedale per una visita accurata. In sala d’attesa, nelle sedie rosse, larghe, sporche, guardavo l’autunno fuori, i pazienti che fumavano nonostante i divieti, barellieri che andavano e venivano. Pensavo a casa mia, alle mie cose, pensavo a quando ero uscito di casa per una semplice visita dovuta a un malditesta. Avevo fatto colazione, controllato Facebook, fatto la doccia. Poi ero uscito di casa, e qualche ora dopo un medico con la faccia da uomo leggeva dalla sua cartelletta e mi diceva, stanotte lei resta qua, ha qualcosa di potenzialmente pericoloso.
Pericoloso?, pensavo. In che senso, pericoloso? Io ero solo uscito di casa per una normale visita dal dottore. Avevo del lavoro da sbrigare il giorno dopo, programmi per quel finesettimana. Avevo 33 anni, e nonostante avessi passato troppe tempeste, mi sentivo ancora come tutti a 33 anni: giovane e fondamentalmente immortale. Non mi era mai passato per la testa che potessi avere qualcosa di pericoloso –no, non a Sydney, non in quel giorno lì, non quando esci da casa e nemmeno hai rifatto il letto.
Intanto era arrivato Mauro a dare il cambio a Federica, e a lui si era aggiunta Marina, e tutti e due mi guardavano ed io guardavo loro e le nostre facce parlavano di quel “pericolo” che ancora non conoscevamo.
Intanto mi facevano un controllo dietro l’altro, e quando l’assistente dell’oculista decise di farmi delle foto all’occhio perchè, parole testuali, non avevano mai visto niente di simile, il letto disfatto di casa mia sembrava sempre più lontano.
Poi arrivò un barelliere grasso, simpatico, con i capelli quasi arancioni, e mi portò in sedia a rotelle in un’altra stanza mentre mi chiedeva se era il caso di investire in Italia e come fosse possibile che avessimo ancora al governo Berlusconi, e la sua voce mi arrivava lontana mentre mi stendevo sul lettino per fare la tac e qualcuno mi iniettava il liquido, che dava una botta di calore come in orgasmo e riempiva la bocca di sapore metallico, come di monetine. Avanzavo verso i raggi e pensavo, ci siamo. Questo è il momento della verità. Adesso non importa più se stamattina sono uscito per un banalissimo controllo, se ho lasciato il letto disfatto, se già sapevo cosa avrei cucinato per cena. Queste cose succedono anche nella vita reale, non solo nei film, non solo agli altri. Mi aspettavo una musichetta drammatica in sottofondo, ma c’era solo la voce dell’infermiere che diceva in inglese che stavamo cominciando.
Questo, pensai, è uno di quei momenti. Guardi oltre il mare, e cerchi di capire che tipo di tempesta sta per arrivarti addosso. Potrebbe essere una di quelle dopo le quali niente è più come prima. Qualunque sia il responso, una cosa non dimenticherai mai: la paura.
Totale, crudele, senza respiro.
Una paura che copre come sudore e fa tremare come vento di gelo. La tua mente ti gioca gli scherzi peggiori, focalizzando quello che non vorresti mai che trovassero in quella tac. E se così fosse?, ti dice quell’angolo perverso nella mente. Non sai cosa rispondere. Hai la stessa paura dell’animale preso in trappola. Non credevi mai di poterti trovare su quel lettino, eppure su quel lettino ci sei tu e tu soltanto.
É allora che cominci a pensare. Anche se non stai morendo, la macchina dei ricordi parte lo stesso. Ecco cosa succede a vedere troppi film per tutta la vita, ti dici.
Così cominciai a ricordare. Erano immagini nitide, precise. Sembrava che aspettassero solo il momento giusto per venir fuori ed essere raccontate. Quelle cose che pensavo un giorno avrei detto ai miei figli o nipoti, adesso le stavo raccontando a me stesso. Erano storie dei miei genitori, dei miei nonni, ricordi di me da piccolo. Non c’era un ordine cronologico. Un momento ero all’università a ubriacarmi col compare, e quello dopo stavo finendo le elementari in un caldo giorno di giugno. Non mi dispiaceva quello che vedevo. Era meglio che pensare a quello che non volevo pensare. Davanti agli occhi, in quei pochi minuti, mi passò davanti tutto. Le persone, le storie, le risate, le lacrime, tutto. Poi il ciccione rispuntò con la sua sedia a rotelle ed io tornai da Mauro e Marina, tornai a farmi togliere sangue e a rispondere a domande finchè qualcuno non mi portò di sopra in uno dei letti, e lì scherzai con Mauro e Marina per non pensare. Qualcuno scostò le tende, era uno dei medici con i risultati della tac.
É un grumo di sangue, disse.
Perfetto, dissi io, e lo pensavo veramente. Perchè, coi rischi che c’erano, quello sembrava il male minore. ERA il male minore. Mi sentivo fortunato come uno che ha vinto la lotteria. Abbracciai tutti. Mi attaccarono subito una flebo di eparina per risolvere il grumo. Tenni quella flebo tutto il giorno dopo, quando mi svegliai di buon umore anche se ero in ospedale perchè qualcosa di tremendo mi aveva solo sfiorato ed io mi sentivo contento. Non pensavo neanche più al letto di casa mia. Risolviamo questa e poi andiamo.
Altri amici mi visitarono. Io restai con l’eparina e il mio buonumore fino al pomeriggio, quando feci una risonanza e il risultato disse che sì, c’era qualcosa, e no, non era un grumo di sangue.
Non ricordo che dottore me lo disse. Non era quello della sera prima. Non credo che lo vidi più. Ricordo però il vuoto che mi si apriva nello stomaco, come uno scivolo dalle pareti lisce dove tutto cade inesorabilmente verso il fondo, senza possibilità di appigliarsi a niente.

Ero di nuovo su una sedia a rotelle. Mi ci stavo abituando, a quei cosi. Risparmiavano fatica –il che era un bene, visto che, qualunque cosa avessi, stava peggiorando. Le infermiere giù erano stupite di vedermi ancora una volta. Come, di nuovo tu? É perchè mi diverto un mondo qui con voi, rispondevo. La donna sul letto accanto alla mia sedia si lamentava nel sonno, diceva che non voleva morire. C’era da aspettare, così un’infermiera mi diede delle riviste da leggere: una copia di Grazia e un’altra di una rivista di arredamenti per interni. Forse morire non era così male, dopotutto.
Le infermiere erano tutte gentili, i medici di bell’aspetto e muscolosi, le dottoresse eleganti e bellissime. Mi sembrava di essere finito involontariamente in una puntata di ER. Anche la chirurga che mi preparò all’angiogramma era molto bella. Scura, esotica. La dottoressa che mi aveva parlato dei rischi dell’angiografia, invece, non era granchè. Naso lungo, capelli sfibrati. Si capiva che era una che non dava mai il 100% nella coppia. Pensavo questo, mentre mi spiegava che avevo delle possibilità di beccarmi un ictus durante l’angiogramma. Beh, è sempre bene saperle le cose. Ma forse l’ignoranza è un’opzione non così deprecabile, in certe circostanze.
La mia amica Marina era presente mentre lei parlava. La vidi con la coda dell’occhio cambiare colore. Mi fece una foto col telefonino mentre mi portavano via, forse per ricordarmi ancora con tutti i pezzi a posto.
In sala operatoria, durante l’angiografia, ero sveglio. Pensai alle stesse cose che avevo pensato durante la prima tac. La mia famiglia era sempre con me. Non era bello quando cose del genere succedevano a 1.500 km da casa, ma loro erano sempre lì da qualche parte. C’erano tutti, in quei momenti. Non restavo mai solo nella mia testa.
Non so perchè, ma quando mi attaccarono alla macchina che rimandava i miei battiti cardiaci, pensai al battito di un bambino. Pensai a quando si fa la prima ecografia, e si scopre una nuova vita. Non so perchè ci pensavo, ma non mi dispiaceva come immagine.
L’angiografia andò bene, a parte una macchina che emetteva raggi e mi dava dei tremendi dolori alla testa. Mi medicarono e trasportarono in stanza, immobile. Più tardi mi spiegarono che non avevano trovato niente, così si dovette procedere alla puntura lombare. Fu un medico libanese a farmela. L'avevo incontrato il primo giorno. Era affabile, ma non aveva ancora capito che, quando un paziente chiede cosa potenzialmente potrebbe avere, a volte non vuole saperlo davvero, ma solo essere temporaneamente imbrogliato. Passiamo così tanto tempo a farci imbrogliare, nella vita, che poi ci sembra innaturale che succeda il contrario, specie in situazioni estreme.
Gli chiesi solo una volta cosa pensava potesse essere quella massa in testa. Non glielo chiesi mai più.
Con la puntura lombare, il rischio è di restare con le gambe paralizzate. Per fortuna non avvenne, e il dolore non fu atroce come pensavo. O forse ero io che, in quei giorni, avevo imparato ad ignorarlo più del solito. Mi ero sempre reputato uno che il dolore lo reggeva come il whisky. Lo rispettavo, il dolore. Sapevo quant’era importante, e quant’era inevitabile. Per me era sempre stato una presenza non richiesta ma costante, ma non avevo mai affrontato una cosa del genere. Me ne stupivo io per primo. Chissà se all’inferno danno delle medagliette per questo, pensai.
Inutile dire che anche la puntura lombare non diede alcun tipo di responso
Una settimana, e ancora non sapevo cosa il mio corpo stava tramando contro di me.
E un’altra notte sarebbe passata in quel posto, dove l’aria di fuori non entrava, gli uomini si rigiravano nei letti e il cielo fa promesse che non sempre riesce a mantenere.
Anzi, da quelle parti, quasi mai.

(Continua)

venerdì 17 maggio 2013

Perchè sono passato di qui

(Venerdì 10 maggio ho dovuto affrontare un’operazione molto rischiosa, dove c’era il rischio concreto che non mi svegliassi più.
La notte prima ero pieno di dubbi e pensieri. Tra i tanti messaggi, la mia amica Marina disse: un giorno scriverai di questo, e lo metterai sul tuo Morgana.
La mattina dopo parlai al telefono coi miei, per quella che poteva essere l’ultima volta. Gli amici cominciavano ad arrivare all’ospedale, anche loro dopo tante notti insonni.
Quando mancava ormai un’ora per andare sotto i ferri, decisi che avevo posticipato fin troppe cose nella mia vita, così seguii il consiglio di Marina. Mi feci dare un foglio e una penna, e mi misi a scrivere.
Mi chiedevo, inevitabilmente, che senso avesse tutto quello, che senso avesse mai avuto. Mi chiesi perchè mai ero passato di là, cosa ne era stato della mia vita.
Capii che potevo sentirmi disperato. Che senso c’era? Che motivo, che perchè? Non credevo in Dio, e quello che stava succedendo sembrava senza logica.
Capii che potevo sentirmi affranto per tutto quello che c’era ancora da fare, e che forse non avrei fatto.
Capii che potevo sentirmi arrabbiato. Perchè proprio io, con tutta la merda che ho già dovuto mangiare? Perchè adesso, a soli 33 anni, e non fra un altro mezzo secolo?
Capii che mi sentivo tutte queste cose, e che il tempo in fondo non ci basta mai. Invece io, di tempo, non ne avevo più molto.
Con me c’erano solo un foglio, una penna, e un’ultima ora prima di addormentarmi.
Così, senza scuse, senza pensare a chi avrebbe letto, senza più difese, senza voglia di lieto fine e senza sapere se avrei mai rivisto queste parole, ecco quello che ho scritto.
Questa è per voi
).



Sono passato di qui
per l’amore
e amore è quello che ho trovato
ho trovato l’amore nei miei
e ho cercato di ripagarlo come potevo, a rate
ho trovato l’amore nel loro miracolo
nelle loro vite, nel loro sorriso
in mio fratello che aspetta sempre i miei ritorni
nei miei nonni che guardano & ridono
ovunque essi siano
ho trovato l’amore nella mia gente, nelle mie
facce, nei miei posti
nella mia spiaggia, il mio mare, nella mia campagna
ho trovato amore nell’attesa della primavera
nelle giornate d’estate
negli addii di settembre
ho trovato amore nelle mie parole
quelle che hanno fatto crescere gioia dal dolore
ho trovato l’amore in strade di notte e stanze strette
in un compare che è sempre stato un fratello
in un’altra famiglia che è sempre lì, pronta
ad offrirmi calore & birra
ho trovato l’amore in piccole cose
che ho saputo poi complicare a modo mio
ho trovato l’amore in persone che mi
hanno tradito e ferito, ma prima che fosse notte
mi hanno donato bellezza e colori nuovi
ho trovato l’amore in fratelli & sorelle
qui, a Messina, a Roma, ovunque questa
strana, buffa, tragica
ironica vita
mi ha portato
tutti loro con un amore diverso
per le mie tasche
che mi hanno riscaldato in così tante
notti
che non posso contarle
e a tutti loro
dico solo
grazie
e dico
valeva la pena
sporcarsi le mani
con la
vita.


Marco Zangari
Sydney, 10/5/2013



(<


P.S.
Sono passato di qui
per l'amore
e per fortuna
sto ancora passando.

Alla prossima.

martedì 14 maggio 2013

Il giorno che ho quasi perso il mio amico


Il giorno che ho quasi perso il mio amico, mi bruciava. E non per tutte le cose che, nel repertorio dei coccodrilli, avrei voluto dirgli – che era buono, intelligente, gentile e generoso, le banalità che tutti quelli che se ne vanno si sentono dire.

No, questo no. Mi bruciava l’anima e mi rodeva la vita per le cose che sentivo c’erano ancora da fare insieme.

Non era il momento. E se di destino si trattava, beh aveva proprio un tempismo del cazzo e lui, in anticipo di dio sa quanti decenni, poteva tornarsene ad aspettare dietro a un lampione, in un angolo dove l’avremmo incrociato a tempo debito.

Non era tempo, dicevo, e le lacrime per questo non scendevano. Al di là del dramma che in gruppo stavamo vivendo, in fondo il presentimento che ci fosse un errore, o che una sveglia sarebbe suonata fuori dalla quella sala d’attesa di neurologia, non mi lasciava.

All’estero si vive in branco, forse perché la maggior parte del tempo la si passa a brancolare nell’incertezza di una realtà che non conosciamo. Ci scegliamo, a uno a uno, entriamo nella vita dell’altro portandoci dietro il codazzo dei nostri gregari.

Così allarghiamo le fila del gruppo che non ti pianta al chiodo, neanche quando sei felice e non ti serve nessuno, e fa le veci, per quanto possibile, della tua famiglia naturale.

A stare di piantone, fuori dalla porta oppure al letto della camera di M, eravamo tanti, per lo piu’ ragazze, unico escluso Mauro, “la quota blu” come ebbe a dire proprio M.

Tutti rapiti in un momento surreale in cui il risultato di una partita che non stava a noi giocare cambiava di giorno in giorno. I dottori non capivano di cosa si trattasse e non lo tenevano nascosto, spingendoci in un’altalena delirante, tra sollievo e disperazione.

Quando alla fine si capì che un incubo era stato, tutti eravamo consapevoli di aver subito una metamorfosi. M, per primo. Non a tutti capita di avere una seconda mano da giocare, toccava ora spendersela bene.

Il giorno che ho quasi perso il mio amico, l’ho perso per sbaglio. Per una diagnosi mancata e che ha tardato a correggersi.

Ma l’ho perso e ritrovato.

Il destino dice che ci aspetterà a un angolo, dietro a un lampione, ma quello che importa sarà lui ad aspettarci, quando avremo voglia di andargli incontro, insieme.

M.